RIBELLE

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Il suo credo relativo al porgere l’altra guancia finì nell’intestino retto al secondo pestaggio di quella settimana. Davide si rialzò col naso che colava sangue, i pantaloni della divisa strappati e un’imperiosa rabbia da sfogare subito.
Erano in tre, della sua stessa età, e lo schernivano per la sua gentilezza, l’intelligenza sopra la media e il fatto che preferiva stare per conto suo.
All’inizio erano solo battute volgari, niente di cui tenere conto, ma in pochi mesi gli insulti diventarono botte, da sporadiche a frequenti come quella settimana.
Davide puntò i suoi occhi pece, scintillanti di rabbia e aggressività, in quelli del primo davanti a lui e sferrò un calcio fulmineo all’inguine del nemico facendolo crollare a terra. Gli altri due avanzarono senza dire una parola, ma Davide aveva deciso di buttare nel cesso la religione e punì il biondino a sinistra con un destro potente in faccia e l’altro, che restò spiazzato dalla reazione, con un calcio all’altezza del rene sinistro.
Lo stretto corridoio si era riempito di studenti delle altre classi che mormoravano parole ovattate, l’ira di cui era invaso alterava i suoni. La ragazza dai capelli rossicci di una delle terze classi stava osservando tutto da quando era iniziata la lotta, impotente e forse spaventata.
Roberta, alta molto meno di lui, era una sorta di persecuzione, l’incontrava spesso, non solo a scuola, e gli piaceva. Avevano parlato solo un paio di volte, ma lei lo salutava sempre e lui si ritrovava a fantasticare ogni volta.
In quel momento era lì, probabilmente lo stava giudicando, nella sua divisa grigio chiaro che s’intonava alla perfezione col le iridi cielo che madre natura le aveva donato.
Stava vincendo un duello ma allo stesso tempo ne usciva sconfitto abbassato al grottesco stile di vita dei tre aggressori.
Qualcuno lo incitò a rincarare la dose di colpi, lui bruciò l’essere con un’occhiata zittendolo e immaginando che esplodesse in miliardi di particelle. Intanto il primo che aveva colpito iniziò a vomitare lamentandosi, quello a cui aveva dato il pugno in faccia si rimise in piedi farfugliando insulti. Non ci pensò due volte e lo zittì con un altro cazzotto ben piazzato nello stomaco.
Uno dei docenti arrivò di corsa probabilmente chiamato da uno dei ragazzi, l’uomo di un metro e novanta magrissimo era l’insegnante di inglese e nell’abito gessato nero aveva l’aspetto tipico di un lord londinese.
«Ehi! Che combinate?» gridò mentre si fermava tra Davide e il ragazzo ancora in piedi
Lui lo ignorò mentre respingeva l’ennesimo attacco del biondino scansandosi di lato, tremava dalla testa ai piedi zeppo di adrenalina; il docente gli bloccò il polso destro.
«Basta!»
Il biondino tornò alla carica ma ci pensò Roberta a stenderlo con uno sgambetto a regola d’arte che fece schiantare il ragazzo a terra ai piedi del professore. Arrivò anche il preside correndo, l’enorme uomo in sovrappeso di almeno trenta chili ansimava per lo sforzo, la camicia bianca era uscita dai pantaloni e due bottoni erano saltati nel tentativo di contenere la pancia sballonzolante.
Passarono diversi secondi carichi di silenzio.
Davide si divincolò dalla presa e corse via alla ricerca di un posto dove calmarsi, il preside gridò qualcosa che lui non registrò, il corridoio sembrava infinito con le sue porte che scorrevano a destra e sinistra. Arrivato in fondo prese a salire le scale divorando i gradini due alla volta aggrappandosi al corrimano, si lasciò alle spalle il primo piano puntando al sottotetto.
La porta era aperta come al solito.
Andava spesso lì quando voleva isolarsi dai suoi coetanei attenti solo alle apparenze, quando voleva chiudersi in sé stesso e concentrare i suoi pensieri altrove durante le pause scolastiche.
Sputò in un fazzoletto di carta e lo passò tra il naso e le labbra per pulire i residui di sangue.
La respirazione non voleva tornare normale, tremava ancora ed era la prima volta che picchiava qualcuno.
«Mi chiedevo quanto ci avresti messo a reagire.»
Davide smise di guadare il pavimento, tenendosi in fazzoletto di carta contro il naso spostò lo sguardo sulla ragazza appena arrivata.
«Io mi chiedo perché tutti guardano ma nessuno fa nulla.»
Roberta restò ferma davanti alla porta, con le mani nelle tasche e la giacchetta grigia aperta a mostrare la camicetta bianca con il colletto sbottonato.
«Perché è questo il mondo in cui ci fanno vivere.»
La ragazza si avvicinò.
«No, è il mondo in cui ci abbassiamo a vivere.»
Roberta di sedette accanto a Davide.
«Ti fa male?»
«Passerà, ma ho sbagliato a reagire.»
«Ti piace prenderle?»
Roberta si alzò e gli si parò davanti.
«È così difficile per te difenderti? Io non capisco.»
Davide preferì non parlare, lasciò che il silenzio invadesse la soffitta e buttò i suoi occhi in quelli della ragazza.
Le sirene di un’ambulanza echeggiarono in lontananza, probabilmente uno dei tre aggressori aveva bisogno di cure mediche.
«Avranno già chiamato i miei.» tirò fuori il cellulare dalla tasca e lo spense.
«Non ho voglia di parlarci.»
«Vuoi stare nascosto qui per sempre?»
Roberta prese il suo smartphone per leggere qualcosa.
«Il preside sta andando fuori di testa perché non ti trovano.»
«E chi se ne frega.» Davide tornò a fissare il pavimento «Ma non vedi che ci stanno rendendo tutti uguali?»
Roberta fece spallucce
«Perché se una persona non segue la massa deve essere trattata male? Perchè non accettiamo la diversità delle persone? » spostò lo sguardo verso la ragazza e ritrovò i cristalli azzurri pronti a fissarlo «Te lo sei mai chiesto?»
«Sì…» la Roberta si girò di spalle «E se tu sai la risposta, allora vieni da un altro pianeta.» si allontanò raggiungendo la porta «Io torno giù…» si voltò a guardarlo «Se vuoi possiamo parlare ancora, qualche volta intendo.»
Roberta infilò la porta sparendo per le scale, Davide attese ancora un paio di minuti e trascinando i piedi ritornò in classe. Si mise al suo posto, sporco di sangue, il pantalone strappato all’altezza del ginocchio destro e tanta voglia di piangere. L’aula era deserta, anche nei corridoi non c’era anima viva e non era normale alle undici del mattino. Si alzò e uscì alla ricerca di qualche forma di vita, alcune voci gli arrivarono da molto distante e la direzione era quella della palestra. Seguì i suoni finché diventarono comprensibili e si piazzò fuori dallo stanzone, mani in tasca e sguardo a terra.
La voce del preside ben distinta spiegava che certe cose non dovrebbero succedere, che in quel momento uno dei ragazzi della quarta era in ospedale per le ferite riportate, tante parole all’aria che nessuno stava ascoltando.
Delle sue ferite non si stava occupando nessuno e decise che era ora di andarsene a casa e chiudersi in camera davanti al computer alla ricerca di risposte nei siti scienza e astronomia.
Quando entrò in casa incrociò lo sguardo di sua madre che era in riposo dopo il turno di notte in fabbrica, non rispose alle domande e si chiuse in camera.
Passarono così diversi giorni in cui non si mosse, collezionò assenze ma non gli interessava perché era molto più avanti dei suoi coetanei e ciò di cui si parlava a scuola spesso lo conosceva già, appreso da internet per puro gusto personale.
In quei giorni pensò che in realtà la società non voleva quelli come lui che non vivevano a caccia di abiti firmati o dell’ultimo oggetto di tendenza.
Dopo un mese decise di tornare tra i banchi di scuola, non sapeva se quei tre lo attendevano per vendicarsi, ma sicuramente avrebbe trovato Roberta. L’avrebbe incrociata come sempre con quel timido sorriso che si faceva strada a fatica tra i capelli rossi e gli zigomi leggermente sporgenti.
In fondo, in quei giorni, gli era mancata e lui non aveva il suo numero di telefono. In realtà non aveva il numero di nessuno dei suoi compagni, era solo.
Solo e da evitare.
Si fece coraggio e uscì di casa, con la sua divisa da scuola privata in bell’ordine, divorò quei due chilometri che lo separavano dalla struttura ambita da molti studenti e varcò l’ingresso principale, ma non trovò Roberta ad attenderlo. I tre con cui aveva fatto a botte erano appoggiati al muro accanto alla porta di una delle aule di scienze, lo guardarono stupiti come se non dovesse essere in quel posto. Lui passò e li salutò con un cenno della mano, Gianluca, il biondino che aveva preso a pugni, si schiarì la voce.
«Ehm… Davide…»
Davide si fermò, le pulsazioni accelerarono e iniziò a tremare. Possibile che lo chiamasse per nome?
«Senti…» Davide si voltò trovandosi Gianluca a un passo «Voglio chiederti scusa per tutto quello che ti ho fatto passare fino ad oggi.»
Davide non capiva, forse lo stavano prendendo in giro.
«Davvero, sono veramente dispiaciuto.»
«Io…» Davide sorrise «Va bene, scuse accettate.»
Anche Stefano, quello che aveva steso con il calcio ai testicoli, e Manuel si avvicinarono porgendogli la mano.
«Scusa.» Stefano era lì fermo con la mano destra protesa in avanti.
Davide strinse la mano del ragazzo.
Stordito dall’evento non riusciva a capire se stesse sognando.
Strinse anche la mano di Manuel tremando.
«Io… Beh, ora devo andare.»
Davide pensò bene a tutto ciò che era successo nei mesi precedenti, si allontanò con calma, qualcosa era cambiato e quei tre sembravano sinceri. Era il motivo del cambiamento improvviso che lo terrorizzava, le persone non cambiano, ne era convinto, ma se era successo realmente significava che anche lui poteva cambiare. E perdere la certezza di ciò che era lo impauriva.
Decise che poteva fare il primo passo, tornò indietro mentre suonava la prima campanella.
«Vi andrebbe di passare insieme il dopo scuola?»
Gianluca incredibilmente sorrise.
«Speravo proprio che me lo chiedessi.»
«Allora… a più tardi.»
Davide si allontanò, stavolta più in fretta per non arrivare tardi in classe.
Appena varcò la soglia ci trovò Roberta, le sorprese sembravano non voler finire quella mattina, e gli scappò un largo sorriso mentre rischiava di annegare in quelle due gocce azzurre.
«Ciao, ben tornato.»
«Grazie.»
«Ti ho visto con quei tre e ho pensato di aspettarti qui.»
«Io non capisco, Gianluca, Manuel e Stefano si sono scusati con me, sembravano sinceri.»
«Hanno rischiato di essere espulsi dalla scuola, non è un bel biglietto da visita per l’alta società. Potevano anche beccarsi una denuncia, ma i tuoi genitori non l’hanno fatto. Mentre eri a casa, il giorno dopo la rissa, siamo stati tutti ascoltati dal preside e tanti ti hanno difeso. Loro tre sono stati sospesi per una settimana e tutto risulta documentato sul registro elettronico e sul curriculum scolastico. Ora dovranno stare attenti perché la prossima volta non avranno sconti. Ma non fidarti di loro, non sono sinceri.»
Roberta improvvisamente gli prese la mano destra.
«Vorresti portarmi nel tuo mondo?»
La seconda campanella suonò, l’insegnante di italiano non era ancora al suo posto e Davide prese con se Roberta portandola nel posto dove si sentiva più a suo agio.

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