Concorso Centro Culturale Antonianum

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Il concorso del Centro Culturale Antonianum si è concluso e ora posso pubblicare il racconto che con cui ho partecipato. Anche questo finirà in una raccolta che ho intenzione di pubblicare.

L’OMBRA

Il piccolo paesino, dopo le ventuno, diventava un deserto e Marina si trovava perfettamente a suo agio nella solitudine notturna. Da qualche mese faceva tardi al lavoro con cadenza quasi regolare, ma di andare a casa subito, quella sera, non ne aveva proprio voglia. Il silenzio dell’appartamento in cui viveva le poneva troppe domande alle quali lei non sapeva come rispondere e spesso non voleva farlo. Ne aveva passate tante e il cerchio della vita le avrebbe presentato ancora guerre, mostrato i pugni, tirato calci.

L’ufficio dove lavorava come venditrice non era molto lontano da casa e, quando non doveva andare dai clienti, lo raggiungeva a piedi.

Una quarantina di minuti in tutto.

Il paesino di notte smetteva di essere scialbo e diventava quasi magico. Le viuzze del centro assumevano colori caldi e il silenzio quasi cullava chi ci camminava, il traffico spariva per lasciare il posto a qualche gatto randagio in cerca di avventure. Tutto assumeva un aspetto fiabesco e i mattoni dei vecchi muri medioevali risaltavano tra le ombre. D’inverno, con la neve e illuminato dalle luci natalizie, diventava speciale. Marina amava la notte, nascosta dal mondo si sentiva protetta, eppure era sempre in vista.

E stava succedendo anche quella sera.

Camminando si sarebbe portata dietro la solita ombra convinta di essere a lei invisibile, ma nulla le sfuggiva più da diversi anni. Conosceva la sagoma silenziosa che si muoveva nella notte, che sapeva dove abitava e, ogni tanto, si avvicinava troppo pensando di non essere notata. Ormai si era abituata a quella presenza di due o tre giorni a settimana, la figura era innocua, almeno lo era sempre stata, e lei aveva superato prove più dure.

Stava passando accanto a una delle vetrine di Swarovski, le luci erano soffuse per enfatizzare la lucentezza dei cristalli illuminati da piccoli spot a led. Si fermò, il riflesso del suo viso sembrava quello di un fantasma, la cipolla che legava i capelli castani era ancora perfetta come il rossetto lucido sulle labbra e la matita scura attorno agli occhi.

A destra del suo riflesso trovava spazio l’ombra, il corpo nascosto da una colonna del portico dall’altro lato della strada, il viso puntato su di lei.

Quel profilo era la somma dei ricordi passati, di una storia importante distrutta da un’altra donna e finita nella violenza, di amori bastardi che però non aveva mai disprezzato, da cui non si era mai difesa. Era il vivo ricordo di manrovesci e di labbra gonfie. All’età di quarantuno anni non aveva ancora imparato a evitare certe situazioni, ci si ritrovava sempre invischiata quasi fosse lei a volerle, a cercarle. Così era sola, sempre, le amiche non esistevano più perché nel migliore dei casi l’avevano accusata, giudicata, abbandonata.

Gli uomini li lasciava alle altre, quelle convinte di trovare ancora il principe azzurro e che continuavano a credere alle favole da quindicenni.

Si sistemò meglio il giubbotto di pelle scura che aderiva alla sua vita non proprio sottile e che si apriva leggermente sul seno di tutto rispetto, ma non esagerato, e la gonna nera che le arrivava alle ginocchia. Controllò il colletto della camicetta bianca, le unghie laccate di rosso spiccavano nel contrasto col tessuto come la sagoma dietro la colonna.

E poi via.

Riprese a camminare con tranquillità, la visione periferica sempre attenta al fantasma.

Il fantasma sempre attento alle sue mosse.

Il corso del paese si aprì sulla piazza principale, un ampio rettangolo racchiuso tra i palazzi antichi con mura di tufo e vecchie finestre piene di ghirigori e intarsi. Il tacco sottile, ma di pochissimi centimetri di altezza, schioccava ogni volta che toccava le pietre della piazza e l’ombra non avrebbe avuto problemi a seguirla. L’essere era entrato nella sua vita due anni prima, un cliente che aveva l’attività in un comune poco distante. Era andata a concludere un contratto e lui, dopo aver fatto il difficile e rifiutato qualsiasi sconto, le suggerì che avrebbero potuto ragionare meglio a casa sua davanti a una buona cena e del vino.

La solita trappola in cui Marina non cadeva mai.

Lei rifiutò quell’invito a visitare la villa, come aveva fatto con altri clienti in passato, e lui senza batter ciglio firmò il contratto ugualmente.

E dopo quel giorno iniziò a seguirla.

Se ne accorse una sera uscendo dall’ufficio, lo vide arrivare e fermarsi dietro una macchina parcheggiata, pochi secondi dopo era la stava seguendo a una ventina di metri e fu pedinata fino a casa.

Marina accantonò il pensiero, su lato opposto della piazza c’era la strada che l’avrebbe portata a casa, ma pensò di cambiare giro e portare a spasso più a lungo del solito quell’essere. Voleva vedere chi dei due avesse più coraggio, così deviò verso destra in direzione del piccolo parco cittadino nascosto dietro l’unica chiesa esistente. Aveva scelto di rischiare e come sempre, in un gioco perverso che non capiva, le piaceva essere osservata, desiderata, sognata. Non aveva mai risposto ai suoi messaggi lasciati in segreteria, alle e-mail, agli inviti sul social network che frequentava. Sapeva che le controllava il profilo, i contatti e dove andava il weekend, ma non le interessava. In fondo quel tizio era innocuo e per quel motivo non aveva mai deciso di rivolgersi alle forze dell’ordine.

La strada piegò a sinistra per aprirsi sul piccolo sagrato della chiesa dei santissimi martiri, a destra della struttura c’era una viuzza incastrata tra i palazzi confinanti e in fondo l’ingresso del parco accerchiato dalle costruzioni moderne e reso quasi claustrofobico. Non aveva cancelli, mancavano da tempo immemore, ed era illuminato da lampioni a fungo che bagnavano vialetti e panchine di una luce calda e ambrata.

Era apparentemente deserto.

Marina entrò senza esitare, dritta verso la fontana ottagonale in pietra grigia e piena di muschio che ne dominava il centro.

L’ombra era sempre dietro di lei, nascosta tra gli alberi.

Con quell’illuminazione era facile vederla, ma lei finse di non essersi accorta di niente. Scelse una panchina in vista, si sentiva più protetta, e si sedette a osservare i getti d’acqua della fontana illuminati da luci colorate.

Uno sguardo al cielo di fine settembre le mostrò Orione e la sua cintura ricordandole quando a quindici anni osservava le stelle con Dario, un amico vero, di cui aveva sempre rimpianto il trasferimento in una città lontana centinaia di chilometri. Fu il suo primo amore, anche se non corrisposto, e negli anni passati aveva provato a cercarlo nei social network senza successo, sembrava essere diventato invisibile al mondo e lei voleva riallacciare i rapporti, scoprire come era diventato da adulto.

Soppresse una lacrima sul nascere e, chiusa la parentesi dei ricordi, cercò la sagoma senza trovarla, le scappò un sorriso mentre allargava le braccia sul bordo dello schienale e constatava che l’essere aveva desistito. Osservò l’orologio che aveva al polso, erano quasi le ventidue ma stava troppo bene in quel posto per tornare a casa. Quella sera non avrebbe passato la maggior parte della notte su internet nel rispondere a tutti quei maschioni a caccia di donne facili.

Un rumore attirò la sua attenzione, era dietro di lei, verso destra. D’istinto si voltò proprio nel momento in cui una mano le avvinghiò il collo esile.

Era l’ombra.

Era Moreno Chiotti.

Le sue mani si attaccarono al polso dell’uomo, le unghie si conficcarono nella carne, lui strinse con più forza mentre fu costretta ad alzarsi dalla panchina finendoci in ginocchio sopra. Marina sentì i polmoni bruciare bramando ossigeno, il collo sembrava volersi spezzare da un momento all’altro nella morsa della mano destra dell’uomo e gli occhi le si erano riempiti di puntini luminosi che si muovevano.

Lo sguardo di Chiotti era inespressivo, il fiato alcool puro, e dentro doveva covare un odio inimmaginabile nei suoi confronti. Con un rapido gesto del braccio la scaraventò oltre lo schienale gettandola ai piedi di un albero, era libera ma tossiva convulsamente con la faccia sull’erba.

Moreno non parlava e si limitava ad osservarla.

Passarono lunghissimi secondi nell’attesa dell’inevitabile violenza, ma lui non si mosse, Marina aveva riacquistato il controllo dei polmoni e decise di tentare la fuga, si alzò rapidamente e corse via prendendo un vialetto a caso. Si sforzò di ignorare il dolore alle ginocchia sbucciate, le scarpe non le erano d’aiuto nella fuga, si voltò e Moreno era ancora fermo, ormai distante. L’uscita del parco era lontana e doveva aggirare il piccolo campetto da basket circondato da alte reti. Capì che l’uomo era così tranquillo perché sapeva dove attenderla.

Doveva trovare un diversivo.

Deviò verso sinistra e attraversò un tratto erboso che terminava in una zona buia del giardino. Scavalcò con fatica una siepe alta poco meno di un metro e iniziò ad allontanarsi carponi, lentamente, evitando rumori traditori. Mentre tentava di raggiungere l’uscita seguendo il perimetro recintato, pensò al cellulare spento nella tasca interna della borsa rimasta sulla panchina, ma il rumore di passi trascinati sul terreno la preoccuparono molto di più. Non era in quel momento che doveva venire cercarla, le serviva più tempo, l’uscita era ancora lontana e Marina accelerò il più possibile l’andatura.

I passi diventarono talmente veloci che fu costretta a fermarsi, col cuore che sembrava volerle schizzare fuori dal corpo si guardò attorno sperando che lui non fosse troppo vicino.

Forse si era messa in trappola.

La schiena le sembrò spezzarsi in due dalla potenza del pugno che la colpì e finì di nuovo faccia a terra tra le foglie secche, a bocca aperta in preda al soffocamento. Sentì Chiotti scavalcare gli arbusti, le si inginocchiò vicino, con una mano l’afferrò per i capelli costringendola a sollevare la testa, tra le fitte di mille aghi. Mentre le si sedeva sopra, Marina emise solo un gemito che nessuno avrebbe mai sentito.

Sentì qualcosa passarle attorno al collo, sembrava una corda, e capì ciò che stava per accadere. Il corpo tornò libero di muoversi e uno strattone alla fune l’obbligò ad alzarsi. Non tratteneva più le lacrime, nella sua vita aveva avuto solo dolore dagli uomini e probabilmente quella sera ne avrebbe ricevuto ancora. Rimpianse di aver sfidato la sorte solo per dimostrare il suo coraggio, di non essere a casa davanti al monitor impegnata nel rispondere agli sconosciuti che le facevano i complimenti per quelle quattro foto false che aveva messo nel profilo, ma, soprattutto, non aver passato un po’ di tempo a chiacchierare con “Gatto Matto”. L’unico in rete di cui le importasse veramente qualcosa e che mostrava un interesse sincero nei suoi confronti.

Nelle mani dell’aggressore comparve un grosso coltello da cucina, la lama luccicava alla luce dei lampioni, uno strattone e si trovò a contatto con Moreno. L’acciaio le lambì il collo, era freddo e Marina iniziò a tremare senza controllo, lui la spintonò facendola passare attraverso una zona dove la siepe era assente.

«Sarebbe così facile tagliarti la gola, lo sai?» la voce era priva di emozioni.

«Oppure potremmo divertirci un po’ insieme e poi deciderò cosa fare con te. A casa mia c’è un comodo letto dove potremmo amarci.»

Il viso di Chiotti si fece ancora più vicino, fino a elargirle un bacio sulla fronte. Aveva cambiato ancora espressione.

«Avresti potuto vivere con me, essere felice nella mia villa. Sei la donna che ho sempre aspettato di incontrare e non ti sei mai degnata di rispondere a uno solo dei miei messaggi!» allontanò la lama «Comunque hai scelto tu.»

L’uomo rovistò nelle tasche e ne estrasse un foglio accuratamente ripiegato in quattro parti.

«Ora scrivi la tua lettera d’addio, scrivi che non sopportavi più la solitudine e hai deciso di farla finita.» e le porse una penna.

Marina non riusciva a controllare il suo corpo che tremava impazzito e fece cadere la biro, lui la raccolse tenendo salda la corda nella mano destra, una figura emerse dall’ombra quasi volando. Moreno finì in terra trascinandosela dietro, perse la presa sulla fune e lei fu libera. Qualcuno era arrivato per salvarla, un angelo stava lottando col diavolo. Marina si trascinò sul selciato verso una panchina, osservò Chiotti tentare la fuga ed essere subito raggiunto e atterrato, mentre lei non credeva a ciò che stava vedendo.

L’angelo era il suo datore di lavoro.

L’ingresso del parco s’illuminò dell’azzurro spettrale dei lampeggianti che colorarono il terreno della lotta. Moreno era finito spalle a un albero con un ginocchio che gli schiacciava lo stomaco e una mano avvinghiata al collo.

Aveva smesso di lottare.

«Ti diverti a prendertela con le donne, eh Chiotti?»

Due carabinieri arrivarono di corsa armi in pugno.

«Fermi tutti e due!» gridò uno con l’arma puntata davanti a se, l’altro le si avvicinò liberandole il collo dalla corda e aiutandola a rialzarsi.

Marina d’impulso si abbandonò piangendo sulla spalla del militare in preda a singhiozzi isterici. Quando si calmò, e riuscì a guardarsi attorno, vide Moreno Chiotti ammanettato con lo sguardo a terra e due volontari del centodiciotto che stavano arrivando a passo svelto con una borsa medica.

«Siediti sulla panchina. Per un po’ ti ho persa di vista, non pensavo che avresti cambiato strada.» Federico le si avvicinò con i pantaloni strappati, la giacca chiara sporca di terra e la sua borsa tra le mani.

«Come facevi a saperlo?» Marina aveva ancora lacrime da versare e tornarono a rigarle il viso.

«Beh, io…» sorrise timidamente «sono Gatto Matto.»

Lei distolse lo sguardo dagli occhi scuri del suo datore di lavoro, che era più giovane di cinque anni, e fissò il ghiaino mentre i due volontari le misuravano la pressione.

«Scusami,» riprese lui «ma se avessi saputo la mia vera identità non mi avresti mai raccontato nulla di te e della tua vita. Ho passato l’ultimo mese a tenere sotto controllo quel pazzo di Chiotti quando ti seguiva.»

«Già,» sorrise, mentre i suoi occhi grigi si tuffavano in quelli dell’uomo «Federico Quanti è l’unico datore di lavoro che si preoccupa prima dei dipendenti e solo dopo dei guadagni.»

«E’ vero, ma ho anche scoperto che non voglio perderti.» Federico si era accovacciato davanti a lei prendendole le mani tra le sue.

Marina non seppe come rispondere e si limitò a spostare lo sguardo a terra.

«Signora…» s’intromise la giovane volontaria in divisa arancione «riesce a camminare fino all’ambulanza?»

«Credo di sì.»

«Bene, allora mi dia la mano. Dobbiamo accompagnarla in ospedale per accertamenti.»

Marina si voltò verso Federico cercando il suo sguardo.

«Finirò di parlare con i carabinieri e in breve sarò in ospedale accanto a te.»

La volontaria le cingeva le spalle con un braccio facendole sentire la vicinanza di un’altra donna e Federico le sorrideva come faceva ogni giorno, solo che in quel momento era diverso, era un sorriso che emanava dolcezza sciogliendole di dosso la sporcizia del passato.

Era con lui che avrebbe voluto ricominciare a vivere e forse quello che era successo poteva interpretarlo come un segno del destino.

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