ALITO DI VITA

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Simona volava leggiadra all’interno della stanza asettica che riconosceva appartenere a un ospedale. Cosa ci facesse lì dentro non lo comprendeva e il fatto che fosse libera di fluttuare senza toccare terra ancor meno. Si sentiva estranea al mondo e soprattutto al suo corpo; le sembrava di essere un alito disperso nell’ambiente circostante.
La stanza era apparentemente deserta e priva di suoni, le pareti di un arancio tenue contrastavano con il pavimento blu, nessun tavolo ne sedie, ma Simona stava osservando solo una parte dell’ambiente in cui si trovava.
Si voltò, almeno così pensò, cercando qualche forma di vita che potesse aiutarla a capire dove si trovasse. Le pareti ruotarono attorno a lei e ciò che vide fu familiare, ma non avvertì alcuna emozione. Il cuore non le balzò nel petto, in realtà non lo sentiva proprio pulsare, e non percepiva alcun rumore.
Desiderò avvicinarsi al letto che era sotto di lei e questo si ingrandì a mostrarle l’occupante. Si riconobbe avvolta in fasciature, il viso pieno di ferite, con cavi elettrici e tubi che si diramavano dal corpo verso apparecchi sconosciuti. L’unica cosa che riconosceva era l’andamento del battito del suo cuore mostrato in un piccolo schermo pieno di scritte e luci rosse lampeggianti. Simona osservò se stessa, ma non riusciva a ricordare.
I capelli corvini che amava tanto le erano stati rasati a zero, un cerotto occupava la parte destra della sua testa, gli zigomi morbidi e appena pronunciati erano pieni di tagli mezzi rimarginati, le labbra gonfie e bluastre.
Simona, o quello che era diventata, girò intorno al letto osservando bene il corpo alla ricerca di spiegazioni.
Rammentò casa sua, il campanello che suonava, la sua mano che apriva la porta. Uno sforzo maggiore le aprì la mente, chi si era annunciato come postino l’aveva presa per il collo, stringendo con forza obbligandola a inginocchiarsi.
Simona sapeva chi si era trovata davanti, lo aveva notato diverse volte in stazione, la mattina e la sera, faceva la sua stessa tratta. Si ricordò di aver lottato liberandosi dalla presa, di essere scappata in bagno ma di non aver fatto in tempo a chiudersi dentro. Il calcio che il tizio dai familiari occhi cenere aveva dato al battente si era riflesso anche contro di lei gettandola a terra e facendole picchiare la testa contro il bordo del lavandino.
L’uomo disse parole confuse, ma una frase tra quelle sconnesse l’aveva capita.
«Sei mia, se non posso averti devi morire!»
Simona gridò più forte che poteva, costretta in un angolo tirò pugni a caso senza colpire nulla.
Fu investita da calci e cazzotti dati con rabbia assassina, mentre la vista le si annebbiava per un colpo della testa contro lo spigolo del muro e le ginocchia cedevano di schianto.
Il campanello suonò nuovamente, qualcuno colpì la porta dell’appartamento con violenza e l’uomo si fermò.
Simona ricordò la lama, comparsa nella mano dell’aggressore, che affondava decisa nel suo corpo, almeno tre volte, forse quattro, il sangue che si allargava sul pavimento azzurrino del bagno, urla maschili, bestemmie, sirene e luci.
Buio.
Il ricordo era tornato vivo, ma lei non capiva il motivo di tanta violenza.
Mentre la sua coscienza volteggiava nella stanza, nel momento in cui stava ricordando altre scene, entrò un’infermiera. Spingeva un carrello con alcune siringhe, sacchetti per flebo e vari oggetti che non era in grado di riconoscere. La mascherina e la cuffia coprivano il viso ma gli occhi erano di una donna, probabilmente giovane. Armeggiò meticolosamente con delle fialette, riempì una siringa e iniettò la soluzione in un braccio.
L’infermiera prese nota dei valori mostrati da un display vicino al letto e uscì dalla stanza. Simona volteggiò davanti alla donna, almeno così pensava di fare, ma lei non si scompose.
Semplicemente non poteva vederla.
Accettando la sua incorporeità decise di provare a uscire dal locale, ma non poteva allontanarsi troppo dal letto. C’era un filo che la legava al suo corpo, un cordone invisibile; forse perché non era ancora morta davvero.
Improvvisamente un turbinio di sensazioni incontrollabili la investì, mentre il cordone si accorciava attirandola verso il suo corpo.
Tutt’insieme arrivarono dolore, fame, sete, tristezza e suoni. Simona rientrò nel suo guscio, il buio tornò finché aprì gli occhi cercando di mettere a fuoco ciò che era intorno a lei. Tentò di guardarsi attorno muovendo la testa, la porta si aprì e due persone entrarono nel suo campo visivo.
«Signora, se può sentirmi, chiuda gli occhi e li riapra due volte.» a parlare era un uomo, di età indefinibile, coperto da cima a piedi di un camice verde semi trasparente, cuffia in testa e la mascherina sulla bocca. Doveva essere un medico.
Simona eseguì la richiesta.
«Bene, alle mie domande risponda con due battiti di palpebre per il sì e uno per il no.»
L’uomo prese un foglio di carta e le mostrò un volto.
«È il suo aggressore. Conosce questa persona?»
Un battito di palpebre.
«Ne è proprio sicura?» l’uomo indicò un particolare sulla stampa, Simona si accorse di aver sbagliato risposta.
Lei conosceva quel tizio, lo aveva rimosso dal suo passato, ma ne conosceva nome e cognome.
Il cuore cominciò a martellarle in petto, qualcosa cominciò a suonare, l’infermiera le strinse la mano sinistra per calmarla.
«Ok, ora lo ha riconosciuto. È stata fortunata, suo dirimpettaio ha suonato il campanello sentendo dei rumori sospetti e, quando se lo è trovato davanti armato, lo ha steso con un pugno in piena faccia.» l’uomo scriveva su un taccuino «La teneva d’occhio da un bel po’ di tempo, almeno un paio di anni. Abbiamo trovato diverse foto che la riguardano sul suo smartphone. Abbiamo setacciato tutto l’appartamento e trovato una specie di diario con la pianificazione della vendetta.»
Simona aveva rimosso Luca dalla sua memoria dieci anni prima, quando l’aveva lasciato a causa dei suoi comportamenti eccessivamente ossessivi nei suoi confronti. Lui non aveva battuto ciglio sostenendo che lei sarebbe ritornata. Doveva aver covato odio per tutto il tempo e, forse rivedendola per caso in stazione, aveva deciso di compiere la sua vendetta.
«Se l’è vista brutta, ma ha un corpo forte.» l’infermiera sistemò meglio i tubi «Presto li toglieremo e starà meglio.»
«Io non ho più domande, per ora. Spero solo che il giudice non lo metta subito ai domiciliari.»
Simona capì di aver parlato con un poliziotto e non con un medico, ma la sua condizione non cambiava. Aveva paura, non aveva mai pensato di poter essere il bersaglio di uno dei suoi ex. Il primo pensiero fu di cambiare città, allontanarsi il più possibile da Luca e la sua vendetta.
«Non pensi di scappare lontano.» l’infermiera sembrava averle letto nel pensiero «Io ho affrontato la guerra e l’ho vinta.» le accarezzò la mano destra e aggiunse «Quando potrà parlare le racconterò tutto e magari potremmo diventare amiche.»
Simona sbattè le palpebre due volte consecutive e l’infermiera sorrise «Beh, Simona, io mi chiamo Teresa. Riposa ora e se hai bisogno schiaccia questo pulsante.»
Teresa uscì dalla stanza, Simona chiuse gli occhi e rivisse nuovamente tutto ciò che le era successo.
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